Employer branding: gli italiani lo faranno meglio?
A confronto i punti di vista di due associazioni legate al mondo Hr, analizzando ritardi e opportunità di una disciplina sempre più centrale nelle strategie aziendali (e nell’attrarre budget) A che punto siamo in Italia sul tema dell’employer branding? Se guardiamo alla forma, potremmo dire che le nostre aziende hanno appena iniziato a familiarizzare con i temi della comunicazione mirata per attrarre o trattenere talenti. Tuttavia, osservando più da vicino il tessuto organizzativo delle Pmi italiane, soprattutto quelle a conduzione familiare, emerge una trama di iniziative storiche e informali volte a far stare bene i dipendenti, a “fare famiglia”, con una vicinanza tra i diversi livelli gerarchici spesso sconosciuta alle grandi multinazionali anglosassoni. Queste ultime, al contrario, hanno dovuto formalizzare e promuovere una declinazione del marketing rivolta al consumatore interno, ossia il lavoratore. Farsi scegliere da persone che condividono i principi motori del brand e sono quindi inclini a impegnarsi per mantenere vitale l’impresa, senza adattarsi controvoglia a un ambiente insoddisfacente, rappresenta una delle sfide più importanti in questo periodo di forte cambiamento. Il matching tra lavoratore e azienda richiede oggi strategie dedicate e comunicate in modo efficace. Curare l’immagine dell’azienda e, soprattutto, portare avanti concretamente progetti, in un mercato del lavoro sempre più dinamico e imprevedibile, richiede strategie di marketing focalizzate, spesso diverse -o addirittura opposte rispetto a quelle rivolte al consumatore. Chi vive all’interno dell’organizzazione vuole essere visto e riconosciuto per ciò che crea, per il proprio contributo nel conquistare il consumatore. Multifattorialità Chi si occupa di employer branding deve combinare comunicazione, marketing e gestione delle risorse umane per rendere l’azienda un luogo attrattivo in cui lavorare, migliorando al contempo l’engagement dei dipendenti e il recruitment di talenti. È una sorta di Giano bifronte, che guarda sia dentro che fuori dall’organizzazione, facendo sentire al sicuro le persone già presenti e stimolando al tempo stesso chi è alla ricerca di opportunità di cambiamento lavorativo. Un employer branding forte non si limita a descrivere ruoli o benefit, ma si impegna a recuperare e trasmettere l’essenza del brand. Quest’ultima, infatti, si muove grazie all’identità e all’istinto di crescita di ogni individuo che vi collabora. Lo storytelling dedicato al lavoro non può essere lo stesso utilizzato per i prodotti: non deve finire in un imbuto narrativo rigido da cui è difficile uscire. Del resto, il termine stesso “dipendente” ha perso significato in un mercato dinamico, in cui le persone si scelgono reciprocamente, non solo per necessità economica. Secondo quanto dichiarato a Mark Up da Aidp e FiordiRisorse, la chiave di una buona strategia di employer branding è il rapporto con il territorio, le università e, soprattutto, i giovani. Serve un dialogo che tenga conto di un linguaggio accessibile e rispettoso dell’esperienza di chi ha fatto crescere o almeno sopravvivere le aziende, pacificandosi sugli errori e le fragilità delle generazioni precedenti. Testimonianze, rottura degli stereotipi, ricerca del benessere nella diversità: il lavoro diventa il cuore della sostenibilità di un’organizzazione, non solo nei bilanci sociali o davanti ai certificatori, ma soprattutto nel passaparola tra persone sempre più consapevoli del loro potere sull’azienda. Reverse mentoring Matilde Marandola, presidente di Aidp Proprio come un corpo, più le varie parti del sistema sono coordinate e in ascolto reciproco, più l’organizzazione si muove in maniera elegante e decisa verso il mercato. Ma di strada ce ne è molta da fare come spiega Matilde Marandola, presidente di Aidp (Associazione Italiana per la direzione del personale). “È vero che le nostre aziende hanno una tradizione di iniziative di cura e attenzione verso i dipendenti, ma la comunicazione e l’organizzazione di queste iniziative non sono mai state considerate strumenti strategici per attrarre le persone migliori per l’organizzazione. Oggi è necessario acquisire una nuova sensibilità, imparando anche dal marketing, che a sua volta deve adattarsi a un linguaggio non commerciale ma relazionale. L’opportunità sta nello scambio: tra i partecipanti dell’Associazione, che condividendo best practice riducono i rischi imparando dagli errori altrui; tra funzioni aziendali che finora sono rimaste distanti; e, soprattutto, tra generazioni, che devono scambiarsi linguaggi, desideri e vocazioni. Questo avviene tipicamente attraverso il reverse mentoring, uno strumento di dialogo interno molto efficace perché orizzontale, paritario nel riconoscimento di valore e motivato dalla reciproca curiosità verso competenze che si desidera esplorare”. Costruire vere e proprie politiche di employer branding è una necessità reale come sottolineato da Matilde Marandola, secondo la quale anche iniziati


A che punto siamo in Italia sul tema dell’employer branding? Se guardiamo alla forma, potremmo dire che le nostre aziende hanno appena iniziato a familiarizzare con i temi della comunicazione mirata per attrarre o trattenere talenti. Tuttavia, osservando più da vicino il tessuto organizzativo delle Pmi italiane, soprattutto quelle a conduzione familiare, emerge una trama di iniziative storiche e informali volte a far stare bene i dipendenti, a “fare famiglia”, con una vicinanza tra i diversi livelli gerarchici spesso sconosciuta alle grandi multinazionali anglosassoni. Queste ultime, al contrario, hanno dovuto formalizzare e promuovere una declinazione del marketing rivolta al consumatore interno, ossia il lavoratore. Farsi scegliere da persone che condividono i principi motori del brand e sono quindi inclini a impegnarsi per mantenere vitale l’impresa, senza adattarsi controvoglia a un ambiente insoddisfacente, rappresenta una delle sfide più importanti in questo periodo di forte cambiamento. Il matching tra lavoratore e azienda richiede oggi strategie dedicate e comunicate in modo efficace. Curare l’immagine dell’azienda e, soprattutto, portare avanti concretamente progetti, in un mercato del lavoro sempre più dinamico e imprevedibile, richiede strategie di marketing focalizzate, spesso diverse -o addirittura opposte rispetto a quelle rivolte al consumatore. Chi vive all’interno dell’organizzazione vuole essere visto e riconosciuto per ciò che crea, per il proprio contributo nel conquistare il consumatore.
Multifattorialità
Chi si occupa di employer branding deve combinare comunicazione, marketing e gestione delle risorse umane per rendere l’azienda un luogo attrattivo in cui lavorare, migliorando al contempo l’engagement dei dipendenti e il recruitment di talenti. È una sorta di Giano bifronte, che guarda sia dentro che fuori dall’organizzazione, facendo sentire al sicuro le persone già presenti e stimolando al tempo stesso chi è alla ricerca di opportunità di cambiamento lavorativo. Un employer branding forte non si limita a descrivere ruoli o benefit, ma si impegna a recuperare e trasmettere l’essenza del brand. Quest’ultima, infatti, si muove grazie all’identità e all’istinto di crescita di ogni individuo che vi collabora. Lo storytelling dedicato al lavoro non può essere lo stesso utilizzato per i prodotti: non deve finire in un imbuto narrativo rigido da cui è difficile uscire. Del resto, il termine stesso “dipendente” ha perso significato in un mercato dinamico, in cui le persone si scelgono reciprocamente, non solo per necessità economica. Secondo quanto dichiarato a Mark Up da Aidp e FiordiRisorse, la chiave di una buona strategia di employer branding è il rapporto con il territorio, le università e, soprattutto, i giovani. Serve un dialogo che tenga conto di un linguaggio accessibile e rispettoso dell’esperienza di chi ha fatto crescere o almeno sopravvivere le aziende, pacificandosi sugli errori e le fragilità delle generazioni precedenti. Testimonianze, rottura degli stereotipi, ricerca del benessere nella diversità: il lavoro diventa il cuore della sostenibilità di un’organizzazione, non solo nei bilanci sociali o davanti ai certificatori, ma soprattutto nel passaparola tra persone sempre più consapevoli del loro potere sull’azienda.
Reverse mentoring

Proprio come un corpo, più le varie parti del sistema sono coordinate e in ascolto reciproco, più l’organizzazione si muove in maniera elegante e decisa verso il mercato. Ma di strada ce ne è molta da fare come spiega Matilde Marandola, presidente di Aidp (Associazione Italiana per la direzione del personale). “È vero che le nostre aziende hanno una tradizione di iniziative di cura e attenzione verso i dipendenti, ma la comunicazione e l’organizzazione di queste iniziative non sono mai state considerate strumenti strategici per attrarre le persone migliori per l’organizzazione. Oggi è necessario acquisire una nuova sensibilità, imparando anche dal marketing, che a sua volta deve adattarsi a un linguaggio non commerciale ma relazionale. L’opportunità sta nello scambio: tra i partecipanti dell’Associazione, che condividendo best practice riducono i rischi imparando dagli errori altrui; tra funzioni aziendali che finora sono rimaste distanti; e, soprattutto, tra generazioni, che devono scambiarsi linguaggi, desideri e vocazioni. Questo avviene tipicamente attraverso il reverse mentoring, uno strumento di dialogo interno molto efficace perché orizzontale, paritario nel riconoscimento di valore e motivato dalla reciproca curiosità verso competenze che si desidera esplorare”. Costruire vere e proprie politiche di employer branding è una necessità reale come sottolineato da Matilde Marandola, secondo la quale anche iniziative sociali come Welcome. Working for Refugee Integration, (progetto di Unhcr per promuovere l’inserimento lavorativo dei rifugiati) hanno avuto ottimi risvolti di employer branding di rafforzamento del tessuto organizzativo. La sfida più grande consiste nel trovare strumenti di ascolto capaci di far esprimere i collaboratori in modo autentico, evitando risposte “burocratiche” o calcolate per non esporsi. Per questo motivo, vengono adottati strumenti mirati a esplorare anche aspetti meno razionali: “Serve immaginazione: non a caso, il nostro 54° Congresso Nazionale avrà come tema La forza dell’immaginazione, uno strumento essenziale per affrontare la complessità”.
Quale offerta di valore?

Il brand, ancor prima di essere progettato e mostrato all’esterno attraverso loghi e colori, ha un cuore intessuto di vocazione, valori e purpose, che spesso affondano le radici nelle motivazioni che hanno dato vita all’azienda. Secondo Osvaldo Danzi, presidente dell’Associazione FiordiRisorse, una business community italiana nata nel 2008 su LinkedIn per connettere professionisti e aziende, l’incontro tra marketing e Hr è critico. “Nel corso degli anni i direttori del personale si sono innamorati di termini come engagement, empowerment, resilienza, talento e purpose. A distanza di tempo, possiamo dire che molti di questi concetti sono rimasti ben incastonati nelle slide dei convegni e nei titoli dei congressi, ma raramente li abbiamo visti tradotti nella quotidianità aziendale. La prima volta che ho sentito parlare di employer branding è stato almeno 16 anni fa e ancora oggi non si riesce a trovare un’applicazione funzionale”. Secondo Danzi, le imprese italiane sono convinte di avere un “problema di comunicazione” e si stanno concentrando su sinergie tra risorse umane e uffici di comunicazione per rendere il linguaggio più attraente alle nuove generazioni. Tuttavia, perdono di vista il punto fondamentale: cosa comunicare. “Venuta meno l’attrazione di benefit e job title chilometrici (che hanno generato eserciti di manager senza portafoglio e potere decisionale), in presenza di offerte retributive disallineate al costo della vita e senza più l’interesse per i brand, è evidente che le aziende non si siano preparate a offrire una proposta di valore sensata alle nuove generazioni”.
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