USA: Greenpeace condannata a risarcire una società fossile per 650 milioni di dollari

Una giuria dello Stato americano del North Dakota ha giudicato il gruppo ambientalista Greenpeace responsabile di diffamazione e altri reati nei confronti della società texana Energy Transfer, gestore dell’oleodotto Dakota Access Pipeline, ordinando all’organizzazione di pagare all’azienda oltre 650 milioni di dollari di danni. Greenpeace ha dichiarato che ricorrerà in appello, affermando che l’azienda ha […] The post USA: Greenpeace condannata a risarcire una società fossile per 650 milioni di dollari appeared first on L'INDIPENDENTE.

Mar 22, 2025 - 12:08
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USA: Greenpeace condannata a risarcire una società fossile per 650 milioni di dollari

Una giuria dello Stato americano del North Dakota ha giudicato il gruppo ambientalista Greenpeace responsabile di diffamazione e altri reati nei confronti della società texana Energy Transfer, gestore dell’oleodotto Dakota Access Pipeline, ordinando all’organizzazione di pagare all’azienda oltre 650 milioni di dollari di danni. Greenpeace ha dichiarato che ricorrerà in appello, affermando che l’azienda ha utilizzato la causa per intimidire e mettere a tacere le proteste pacifiche. Il caso ruota attorno alle proteste contro la costruzione dell’oleodotto nel 2016 e 2017 da parte di migliaia di persone nei pressi della Standing Rock Sioux Reservation. La stessa tribù indigena Standing Rock aveva fatto causa al governo per bloccare l’oleodotto, denunciando il rischio di contaminazione delle acque e della violazione di luoghi sacri per i nativi americani.

Il Dakota Access Pipeline, progettato per trasportare greggio dalla Bakken Formation fino all’Illinois, ha suscitato forti opposizioni sin dalla sua approvazione. Nel 2016 e 2017, migliaia di manifestanti si sono radunati nei pressi del cantiere, portando a scontri con le forze dell’ordine e a centinaia di arresti. L’allora presidente Donald Trump aveva rilanciato il progetto dopo lo stop imposto dall’amministrazione Obama, accentuando la tensione tra governo federale e attivisti. Secondo Energy Transfer, Greenpeace avrebbe orchestrato una campagna di disinformazione e incitato alla violenza, arrecando danni economici significativi all’azienda. L’organizzazione ambientalista è stata accusata di diversi reati legati alle proteste contro l’oleodotto: le principali accuse includono la diffamazione, la violazione di proprietà privata e la cospirazione civile, poiché secondo l’accusa Greenpeace avrebbe collaborato con altri gruppi e individui per pianificare e attuare attività illegali volte a ostacolare la costruzione e il funzionamento dell’oleodotto.

La causa intentata nel 2019 da Energy Transfer chiedeva circa 300 milioni di dollari di risarcimento, ma la giuria ha più che raddoppiato la somma. Greenpeace USA è stata giudicata responsabile di tutte le accuse, mentre Greenpeace International e Greenpeace Fund Inc. sono state ritenute colpevoli solo di alcune violazioni. I danni saranno ripartiti tra le tre entità. Energy Transfer ha accolto con favore il verdetto, dichiarando che la decisione è un passo fondamentale per dissuadere organizzazioni simili dal promuovere proteste dannose in futuro. Greenpeace ha respinto la sentenza, annunciando ricorso e definendo il processo un attacco alla libertà di espressione e al diritto di protesta pacifica. “Non si può mettere in bancarotta un movimento”, ha dichiarato Sushma Raman di Greenpeace USA, mentre Kristin Casper di Greenpeace International ha ribadito che l’organizzazione non si farà intimidire.

Diversi esperti del mondo legale hanno espresso preoccupazione per le implicazioni del verdetto. Michael Burger, docente di diritto alla Columbia University, ha criticato la sentenza, affermando che potrebbe scoraggiare future mobilitazioni ambientaliste e civili. Marty Garbus, avvocato per i diritti civili, ha invece affermato che si tratta di “una delle peggiori decisioni per il Primo Emendamento nella storia americana”. Oltre al ricorso negli Stati Uniti, Greenpeace ha avviato un’azione legale nei Paesi Bassi, dove ha sede la sua divisione internazionale, citando normative europee contro le cause pretestuose volte a silenziare attivisti e media. L’udienza è prevista per luglio, e l’organizzazione si dice determinata a ribaltare la sentenza.

Greenpeace aveva adottato diverse strategie per opporsi alla costruzione dell’oleodotto. In primis, l’organizzazione ha fornito supporto logistico e mediatico agli accampamenti di protesta allestiti a Standing Rock, dove gli attivisti vivevano in condizioni difficili per bloccare fisicamente l’avanzata dei lavori. Inoltre, Greenpeace ha diffuso informazioni sui rischi ambientali e sui diritti violati attraverso comunicazioni stampa, video e petizioni globali, chiedendo agli organi governativi di fermare il progetto e sostenendo cause legali in collaborazione con i Sioux di Standing Rock. Alcuni membri di Greenpeace e altri gruppi hanno partecipato a proteste che includevano il blocco delle attrezzature e l’ostruzione dei cantieri. Le manifestazioni sono culminate in episodi di repressione violenta da parte delle forze dell’ordine, con l’uso di gas lacrimogeni, proiettili di gomma e idranti. Le tensioni sono aumentate con l’elezione di Donald Trump, che nel 2017 ha accelerato il completamento dell’oleodotto, annullando i blocchi imposti dall’amministrazione Obama.

[di Stefano Baudino]

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